È sempre una festa, quando incontro Antonio Laghezza e sua moglie Emma per strada, con i gemelli al seguito che corrono e sorridono. Mi sembra di conoscerli da una vita, mi sembra quasi di aver potuto condividere qualcosa con Antonio. Con la sua carriera da portiere.
Da piccolo mi sono nutrito dei racconti di mio fratello, che mi parlava di questo suo amico con licenza di volare: a volte in porta, a smanacciare palloni lontano dalla rete, a volte in attacco, a terrorizzare i difensori avversari con le sue rovesciate. Finalmente sono riuscito a farmi raccontare tutto direttamente da Antonio e posso dire di aver ascoltato una storia incredibile.
In principio era una scelta: perché proprio il calcio?
Da piccolo ho passato tantissimi pomeriggi a casa di nonna Maria, che abitava sulla Maddalena. Tra i ragazzini del quartiere, io ero quello famoso per le rovesciate sull’asfalto.
Un giorno Ciccio Simone, che purtroppo ci ha lasciati, chiese a mia nonna di portarmi alla sua scuola calcio, la Sporting, e quindi Ciccio ha convinto nonna Maria, lei ha convinto papà e ho iniziato da lì.
Ti ricordi qualcosa dei tuoi primi anni alla Sporting?
Mi ricordo sicuramente il divertimento. Sì, c’erano gli allenamenti e le partite ma io fino a otto anni non ho nemmeno avuto un ruolo perché per noi gli allenamenti erano correre, divertirci e fare casino. A un certo punto però mi sono stufato. Il calcio non mi piaceva più e ho detto a papà che non sarei più andato agli allenamenti.
Ovviamente non è finita così.
Esatto, per un mese circa ho lasciato perdere. Un giorno però succede che Ciccio Simone telefona a mio padre: la Sporting avrebbe disputato un torneo a Latiano ma la squadra era senza portiere e lui aveva pensato a me. È bastato poco a convincermi: conoscevo il torneo e sapevo che si giocava in un campo da calcetto con l’erba vera.
E perché proprio tu in porta? Cosa avevi di speciale?
Assolutamente nulla. Ero mingherlino, un po’ più basso dei miei compagni di squadra e soprattutto non avevo guanti per parare. Quel giorno sono arrivato al campo con dei piccoli guanti da carpentiere che aveva recuperato mio padre. Un paio di guanti spettacolare, certe volte mi viene la voglia di avviare una mia attività e di produrre guanti per i portieri con lo stesso tessuto di quelli per i carpentieri. Presa massima! C’era solo un piccolo problema: io volevo fare l’attaccante.
Tutto da rifare quindi?
In realtà trovammo un compromesso. La domenica facevo i campionati regionali come portiere e il lunedì giocavo i campionati provinciali in attacco. Avevo tredici anni e conducevo praticamente due vite: in allenamento e alla domenica studiavo gli attaccanti e i modi per non farli segnare, il lunedì invece volevo fregare i portieri avversari ed entrare in porta col pallone. Giocare in attacco mi piaceva tantissimo, ma parare mi riusciva bene. Alla fine ho deciso di “uccidere” il mio sosia centravanti. Peccato, non avrei potuto più fare sfoggio delle mie scarpe da calcio. Sono un vero fissato.
Che tipo era tuo padre durante le tue partite?
Papà mi ha sempre dato quella spinta in più e tuttora, anche se è passato tanto tempo, continua ad essere il mio punto di riferimento. È un grande maestro di vita oltre che un appassionato di calcio. Ancora oggi credo che il primo abbonamento della Virtus Francavilla sia sempre il suo. Papà non è uno di quei genitori che pretende anche di essere l’allenatore di suo figlio. Non diceva una parola, si limitava a sedersi sugli spalti e mi incitava per novanta minuti. Non aveva mai nulla da ridire sulla partita, sugli errori o sulle scelte.
La prima, grande esperienza della tua carriera è stata a Catanzaro. Come è iniziata l’avventura?
A Catanzaro ci sono arrivato grazie a Giovanni Milone, che era riuscito a farmi fare un provino con loro. Lì ho fatto colpo sul responsabile tecnico, Stefano Viola, che aveva un debole per me e aveva già provato a prendermi mentre era alla Reggina. Io volevo iniziare a fare sul serio, non mi bastavano più i riconoscimenti dei tornei locali. Volevo di più da me, volevo giocarmi tutte le mie carte e conoscere nuova gente. La mia famiglia era d’accordo con me. Ecco, forse la mamma un po’ meno.
È stata una bella esperienza?
Bellissima. Il campionato Primavera era molto avvincente: in teoria ero il secondo portiere ma a novembre ho esordito in Catanzaro-Reggina da titolare e da quel momento non mi sono più mosso da quella porta. L’anno dopo sono rimasto come terzo portiere della prima squadra, in Serie C. Lì ho potuto capire davvero cosa significa giocare a calcio ad alti livelli. Mi sono allenato duramente, non mi sono mai cacciato nei guai e ho fatto qualsiasi cosa per poter essere sempre pronto a giocare. Dopo tanti allenamenti assieme a Botticella e Tomasig, due mostri sacri, è arrivato il mio momento e ho esordito in campionato parando contro la Fidelis Andria. Abbiamo perso uno a zero ma l’emozione di quel giorno la sento ancora sulla pelle. Devo ringraziare il tecnico Manuele Domenicali per quell’occasione che ha ripagato gli sforzi di due stagioni. Avrei dormito anche su un trattore pur di giocare.
Hai sempre creduto tantissimo in te stesso.
Ancora oggi lo faccio. A volte penso che questa totale convinzione nei miei mezzi mi abbia danneggiato. Ad esempio dopo la seconda stagione a Catanzaro decisi di andare via e di firmare per il Grottaglie. Forse mi sarei dovuto fidare del tecnico Auteri e rimanere, non lo so.
Però così è iniziato un capitolo importante della tua vita.
Avevo scelto Grottaglie per riavvicinarmi a casa e per giocare da titolare. In quella stagione di Serie D tirammo fuori delle prestazioni incredibili, spingendoci fino alla finale dei playoff. Nel girone H di Serie D si gioca a calcio ad altissimi livelli, forse è il migliore di tutta la Serie D nazionale. Avevo 19 anni e sentire cinquemila persone che mi incitavano a dare tutto è stata un’emozione unica, che mi ha spinto a esaltarmi e a dare il massimo.

Cosa è stata per te Grottaglie?
Grottaglie è stata la mia favola. Ancora oggi sento un feeling particolare con la città e con I suoi abitanti. Mi capita spesso di ricevere messaggi da gente che si ricorda di me, possono sembrare stronzate ma io ripenso sempre a quelle emozioni, a tutte le volte che dopo un gol mi sono arrampicato sulla rete che ci separava dai tifosi. Ho vissuto lì una parte della mia vita, sono cresciuto e diventato uomo nelle otto stagioni a Grottaglie, sono anche stato capitano di quella squadra e sentivo di essere un simbolo per chi ci seguiva. Lì ho capito quanto fosse importante imparare dai miei errori, specialmente di quelli che mettono a repentaglio i tre punti. Ho imparato cosa vuol dire avere fame e non accontentarsi mai.
Ma allora cosa è andato storto?
A fine della stagione arrivò una chiamata dal mio procuratore: il Catanzaro voleva riportarmi in Calabria. Su di me c’era anche il Francavilla di Distante, pronto a giocare il suo primo campionato di Serie D. Ero davanti a un bivio: la C2 a Catanzaro o la Serie D a casa mia. In quel momento ho commesso un errore. Tornare a Catanzaro poteva essere la svolta della mia carriera, forse mi avrebbe permesso di rientrare in un giro particolare, di mettermi sotto i riflettori. Litigai col direttore sportivo di Catanzaro: mi promise che avrebbe fatto qualsiasi cosa per non farmi più giocare a calcio ma io ero solo un ragazzo, con 36 partite da titolare in Serie D sul groppone, che aveva voglia di spaccare tutto.
Quindi hai scelto Francavilla.
Sì, avevo voglia di giocare per la squadra della mia città. Giocai 35 partite da titolare, davanti a Leo Di Punzio che era un grandissimo portiere. Ci salvammo con una giornata di anticipo e raggiungemmo l’obiettivo stagionale. Ma forse mi sarei potuto risparmiare tutta la sofferenza che mi ha provocato quella esperienza. A Francavilla ogni errore pesava il doppio o il triplo, i conoscenti mi criticavano anche se subivo gol in una partita vinta e papà spesso veniva fermato da alcuni amici che volevano solo parlare male di me. Come facevo a spiegargli che è una cosa normalissima, che se non avessi subìto nemmeno un gol praticamente sarei stato un portiere di Serie A e non di Serie D?
A Francavilla sei tornato da avversario, poi.
Sì, con la maglia del Grottaglie. Ricordo quella partita come fosse ieri: vincemmo uno a zero e io parai il rigore del possibile pari. Fu una giornata forte: da una parte sentivo il sostegno dei miei tifosi, mentre nella tribuna dei padroni di casa c’era gente che mi urlava di tutto. Ho sentito i classici venduto, pezzo di merda e simili. Sono cose che non dimentichi facilmente. In mezzo a quella gente c’erano i miei amici, i miei ex compagni, tanta gente che conoscevo. Solo col tempo ho imparato a sorvolare.
Come è andata dopo?
A vent’anni, con più di 70 presenze in Serie D, speravo che arrivasse qualche chiamata in una categoria superiore. Il problema era che non avevo un procuratore e avevo litigato col direttore sportivo del Catanzaro. Ci pensavo sempre a questa roba, credevo che davvero mi avesse tagliato fuori da tutto perché poi sono tornato di nuovo a Grottaglie, di nuovo in Serie D per 7 anni consecutivi. Il telefono non squillava mai. E dire che nel 2010, sono stato anche il miglior portiere del girone H di Serie D, con 5 rigori parati in tutta la stagione. Forse non avevo gli agganci giusti? Forse non avevo le spalle coperte, se capisci cosa intendo?
Hai mai pensato di mollare tutto?
No, assolutamente. Avevo una voglia incredibile di spaccare. A Grottaglie, nell’ultima stagione, mi sono rotto crociato e menisco. Dopo quattro mesi ero già in campo, a fare le rovesciate ai campetti da Salvatore.
E poi c’è stato il Manduria e qualche altro cambiamento.
Sì, dopo tutti quegli anni ho deciso di salutare Grottaglie e di ripartire dall’Eccellenza col Manduria, anche se mi rendevo conto che qualcosa in me stava cambiando. Non volevo più andare lontano da casa, sia perché le proposte erano irrisorie ma soprattutto perché nella mia vita c’era Emma e il nostro progetto di famiglia. Emma è un pezzo fondamentale di ogni mia scelta, specialmente di quelle calcistiche. Da quando c’è lei abbiamo sempre preso assieme tutte le decisioni. Mi ha aiutato tantissimo a riflettere, a non perdere mai la calma e ad essere sempre me stesso. A tutelare la mia dignità, soprattutto nei momenti difficili. E quindi a 25 anni ho iniziato ad essere più realista. La mattina lavoravo con papà e il pomeriggio mi allenavo. Sono tornato anche a Francavilla, ma solo per aiutare Tonino Donatiello. Sono rimasto fino alla fine senza vedere mezzo stipendio, ho onorato il mio impegno fino al fischio finale dei playout e l’ho fatto solo perché la squadra della mia città aveva bisogno anche di me.
Ti voglio mettere in difficoltà: cosa significa per un giocatore di calcio lavorare senza essere pagato?
Be’, è una brutta storia, come per tutti i lavori. Il calcio è un lavoro, io mi alleno ogni giorno della settimana, conduco una vita da professionista per poter svolgere sempre al meglio il mio mestiere. Se poi non arriva nessuna gratificazione economica inizi a chiederti perché lo stai facendo, anche se non ho mai tollerato quei compagni di squadra che al primo accenno di “maretta” smettevano di allenarsi e di scendere in campo.
Proseguiamo con la tua carriera. Poi sono arrivate Casarano e Novoli, giusto?
Esatto. L’anno dopo la nascita dei miei due figli ho ricominciato col Casarano. Ero felicissimo di giocare in una piazza importante, che ha visto tanto calcio vero. Dopo tre mesi però ho rotto con l’allenatore. Avevamo idee diverse, ecco. Da lì arrivò la firma a Novoli, dove si provava a fare calcio in condizioni strutturali davvero difficili. L’obiettivo stagionale era la salvezza e fu salvezza. Per loro e anche per me, decisamente.
In che senso, scusami?
A Novoli ho subìto il secondo, serio incidente della mia carriera. Forse della mia vita in generale, se penso che oggi per me è già tantissimo poterlo raccontare. Ti racconto cosa è successo: 30 aprile 2017, finale playout. Durante il primo tempo supplementare esco su un pallone in presa bassa e vengo travolto da un difensore avversario, che mi colpisce col ginocchio all’addome. Mi mancava il respiro ma c’erano ancora poco più di venti minuti da giocare. Il dolore era atroce, sentivo di avere un coltello conficcato in pancia ma ho stretto i denti, eravamo a un passo dal nostro obiettivo e non me la sentivo di abbandonare la squadra. Non mi rendevo davvero conto di quello che era successo e a un certo punto, durante i festeggiamenti per la salvezza, il nostro fisioterapista mi guarda e si accorge del fatto che ero pallido. Alla fine riesce a convincermi e a portarmi in ospedale. Avevo la milza spappolata.
Ti è andata bene.
Sì, mi hanno operato d’urgenza, avevo perso due litri di sangue. Il dottore mi ha detto che se mi fossi messo in macchina per tornare a casa invece che andare all’ospedale, probabilmente sarei morto alla guida. Da qui abbiamo iniziato a farci qualche domanda. Pensavo alla famiglia, ai miei figli, mio padre mi diceva di smetterla col calcio. Insomma, tanti dubbi mi attanagliavano, dovevo capire cosa fare.

Poi però è arrivata Deghi a renderti tutto più facile.
Per me Deghi è stata una rinascita. Sono felicissimo di parlare di questa esperienza. Deghi significa tantissimo per me e fin da subito ho scoperto di essere sulla stessa lunghezza d’onda del presidente, Alberto Paglialunga. Entrambi veniamo dal nulla, da zero, siamo due persone sincere e positive, con così tanta fame da credere ciecamente in quello che facciamo. Da quando sono arrivato abbiamo ottenuto una salvezza insperata, vinto i playoff di Promozione e la Coppa Italia di Categoria e ora ci stiamo togliendo qualche soddisfazione in un girone tostissimo di Eccellenza.
A Deghi hai anche scritto un bel capitolo della tua storia.
Esatto, a Deghi ho segnato il primo gol della mia carriera. Un’emozione veramente stupenda, impreziosita dal fatto che in tribuna quel giorno c’era tutta la mia famiglia. Sembrava un programma televisivo: dalla milza distrutta al gol da portiere, chi l’avrebbe mai detto? Imiei figli sono impazziti quando ho segnato, per un mese non abbiamo guardato altro a casa.
Se dovessi citare delle persone che hanno influito maggiormente nella tua carriera?
Ho ricordi indelebili di tanta gente. Penso a Checco d’Amblè, il mio capitano a Grottaglie, un giocatore che aveva giocato a Palermo e in altre piazze importanti e che a 37 anni aveva conservato una mentalità e un’etica del lavoro impressionanti. Anche Mimmo Camassa e Mauro Marini erano due veri professionisti, con cui ho condiviso il mio percorso a Grottaglie, ma ci metterei pure Andrea Solidoro e Tommaso Salvestroni. C’è Giovanni Malagnino, poi, un amico con cui ho condiviso tante battaglie. Ma soprattutto Renato Rausa, il fisioterapista che avevamo a Novoli. È davvero il mio angelo custode, l’uomo che mi ha salvato la vita.
Cosa rappresenta per te il calcio?
Sembra una frase fatta, ma per me il calcio è uno stile di vita, impari a non mollare mai qualunque sia la categoria. Sotto tanti aspetti mi ha insegnato a vivere: sono andato via da casa a sedici anni e in quei due anni a Catanzaro ho imparato a relazionarmi con la gente, a capire cosa voglio da me, a vivere da solo e a sapermela cavare. Ricordo ancora il tempo passato al convitto a Miglierina, un comune minuscolo in Calabria. Un paese sulla montagna, dividevo la casa insieme ad altre cinque persone, senza televisione o altro. Sembrava di stare nell’esercito: scendevamo dalla montagna solo per andare a scuola e al campo e poi passavamo tutto il resto del tempo in questo posto sperduto. Ecco, non so quanti giovani oggi farebbero questa scelta solo per provare a ritagliarsi un piccolo spazio in campo la domenica successiva. Ai miei figli sicuramente avrò qualcosa da raccontare, soprattutto se consideriamo che non avrei potuto raccontare nulla dopo quello scontro a Novoli.
Ti piace il calcio di oggi?
Oggi in campo mi sembra di vedere spesso dei ballerini, tanti giocatori “vuoti”, lontanissimi da tanti professionisti che ho incontrato in passato. Ci sono ancora ragazzi che effettivamente hanno voglia e volontà. Però ho visto tante cose che non mi sono piaciute, ho visto l’evoluzione del calcio e ho vissuto sulla mia pelle il momento il cui il calcio ha smesso di essere uno sport ed è diventato altro. Mio suocero dice sempre che io mi sono trovato sempre nei momenti sbagliati, io rimpiango solo di aver toccato con mano la meritocrazia solo nei miei primi anni di carriera.
E adesso?
Prima o poi dovrò smettere, ma per ora non ci penso. Ho trentuno anni, mi sento in formissima e a volte sento di essere anche più sicuro, più preparato di quando ero giovane. Voglio ancora continuare a parare e voglio ancora continuare a togliermi le mie soddisfazioni. Ho ottenuto il massimo da qualsiasi esperienza e non sono un uomo o un padre che vive di rimpianti. Voglio continuare a divertirmi, a misurarmi con i miei limiti e a provare esperienze nuove ma soprattutto, qui lo dico, adesso il mio sogno è segnare un gol in rovesciata! Come quando giocavo sulla Maddalena.
Petrolio Magazine è fatto con dedizione, su base volontaria, dai soci dell’associazione Petrolio Hub. Non è un progetto a scopo di lucro, ma se ti piace il nostro lavoro e vuoi che continui, ti chiediamo di sostenerci con una donazione. Grande o piccola, ci farà decisamente felici: è bello sapere che quello che fai è importante per qualcuno. Grazie!