Contrada Cantagallo, una distesa di niente, villette abusive e bidoni grigi dell’immondizia. Di quelli che si alza il coperchio col pedale e che puzzano di morte, per intenderci.
Ogni estate, per i primi quindici anni della mia vita, dovevamo tassativamente “ritirarci” in campagna, come se la vita lontano da Francavilla fosse più leggera da mandare giù. Tra tutti i posti più dimenticati del mondo, noi avevamo la casa in campagna proprio in quella cazzo di contrada dimenticata da Dio, dove faceva più caldo che all’inferno e dove non mi era concesso di fare niente. Troppo piccolo per attraversare la strada, troppo inesperto per allontanarmi in bici, troppo stupido pure per pensare di scappare. A partire dagli ultimi giorni di scuola avvisavo i miei amici dell’amara punizione che stava lì ad aspettarmi e ancora oggi per me Cantagallo e punizione sono due cose che vanno d’accordo e stanno sempre insieme nella stessa frase.
Quattro mesi di esilio, lontano dai compagni di scuola e dalla civiltà, costretto a passare le giornate a rincorrere le galline, a cercare di farmi male con un roseto o con del filo spinato nel tentativo di recuperare un pallone, un salto indietro di cinquant’anni dentro a una dimensione in cui il progresso si era fermato. Lì non si può andare, questo non si può fare, colazione la mattina e frise la sera sul piazzale di campagna, mettiti l’Autan che stanno le zanzare e poi tutti a dormire nel lettone. Una prigione a tempo da cui sarei potuto fuggire solo in bicicletta, mentre fingevo di andare a buttare la spazzatura facendo il giro largo per arrivare al bidone, unico e mistico punto esterno ai confini di casa dove mi era concesso spingermi.
Ogni tanto guadagnavo qualche nuovo amico “dell’estate”, uno di quei ragazzi che vedevo per quattro mesi all’anno prima di chiedermi come cazzo facessero a dissolversi nel nulla, a scomparire fino all’estate successiva. Sembrava quasi li paracadutassero con l’elicottero, tipo aiuti umanitari. Io dovevo accontentarmi di quello sparuto gruppo di amici mentre mio fratello Andrea si godeva il fior fiore di Cantagallo, la contrada nella sua epoca d’oro, coi ragazzi sulle biciclette che riempivano il vialone, le ragazze che non vedevano l’ora di farsi scarrozzare sul motorino e ripagarti con un limone estivo, il torneo di calcio del Maresciallo Sarli e la festa dei Santi con la banda e il concerto finale.
Non avevo ancora perso le speranze, anzi sapevo che le cose sarebbero potute andare meglio trovandomi anche la fidanzata di Cantagallo, per completare lo starter pack di sopravvivenza, ma c’era un piano celeste che mi stava aspettando. La PlayStation Uno, il gesto con cui le entità divine dimostravano di non avermi ancora dimenticato.
Regalo di Natale datato 1999, un bacio al volo per il mio compleanno, ad aprile, poi c’era bisogno di lasciarla a casa di un amico di papà per un po’. “Dobbiamo fare la modifica, così funziona meglio”. Ma se l’abbiamo appena comprata! Che stupido a non capire.
La primavera portò con sé la lieta venuta in pianta stabile, due joystick e qualche gioco masterizzato: Nagano ‘98, MotoRacer, Tomby, pomeriggi che sapevano di immagini sparaflashate sul Philips azzurro della mia camera, notti di fuoco a guardare mio fratello con ISS Pro e a beccarmi schiaffi di gioia dopo ogni rete, una passione che bruciava e metteva contro gli animi forti della casa. Papà voleva poter giocare a Gran Turismo non appena aveva due minuti, il resto del tempo dovevamo dividercelo io e Andrea in base alle sue esigenze. La PlayStation, la benedetta PlayStation, che si ritaglia con forza un posto nella routine pomeridiana: almeno due ore per i compiti e poi la merenda, Ultimate Muscle su K2 e fuoco allo schermo, joystick in mano e leggendarie partite. Un amico s’era fatto venire la febbre a furia di giocare a Tekken e io allora volevo prendermi un esaurimento nervoso per pareggiare.
Quella fatidica primavera ho consumato i pomeriggi attaccato alla vetrina di Mister Ics, in via Regina Elena. Confezioni di giochi e action figures, la bava alla bocca e la speranza, la possibilità di ingannare l’ennesima estate e di sopravvivere fino al primo giorno di scuola. Mi bastava fare mio uno di quei giochi prima della partenza ma anche quell’anno, puntuali come la bolletta di internet, a maggio arrivarono le pulizie di campagna. Quattordici giorni da amministrare perfettamente per fare in modo che all’inizio della terza settimana di giugno l’intera famiglia scasasse in campagna per rimanerci quattro mesi. Tra le varie buste di cose che portavo con me, quella volta ce n’era una speciale: per trasportare la PlayStation avevo chiesto che la busta fosse rigorosamente di carta rigida e non di plastica griffata Eurospin. Andò tutto per il meglio, il Mivar della residenza estiva si prestava bene per vivere una seconda giovinezza. Papà, che forse capiva la mia angoscia estiva senza che ci fosse il bisogno di parlarne, decise di darmi una spintarella con un regalo di inizio estate.
Metal Gear Solid, in formato rigorosamente masterizzato ma con la copertina fotocopiata, insieme a una memory card verde per evitare di ricominciare tutto da capo ogni giorno. Papà nemmeno immaginava che quello sarebbe stato Il Gioco, l’esperienza più incredibile di tutte le estati cantagallesi, il napalm della violenza gettato sul mio corpo bambino. Era un gioco da adulti, un PEGI 18 diremmo oggi, un classico gioco di sparatorie su due dischi. Avevo l’obbligo di poterci giocare solo con Andrea perché soffrivo di sonnambulismo e con robe tipo Tomb Raider e Resident Evil questo problema si era accentuato. Entrò in casa da perfetto sconosciuto, non lo avevamo mai sentito nominare: parlava di armi nucleari, c’erano tizi che perdevano un braccio schizzando sangue ovunque, decine di tipologie di armi e bombe, donne in intimo e battute sul sesso. Perfettamente doppiato e senza quelle fastidiose scritte piccoline dei giochi Rockstar, il nostro Metal Gear era tutto masterizzato e sui dischi c’erano 1 e 2 scritti col pennarello nero. Avevo solo sette anni, ero una cosa cicciona e sensibile, piangevo sempre quando la mamma era costretta a buttare via i vestiti che non mi andavano più oppure i giocattoli vecchi. Ho pianto anche quando papà ha iniziato a regalarmi un sacco di copie masterizzate dei giochi, pensavo sempre che eravamo tanto poveri da non poterci permettere un gioco per PSOne e non riuscivo a capire che in realtà stavo assistendo a mio padre che mi insegnava come stare al mondo e al tempo stesso mi stava regalando il mio gioco preferito di sempre. Stavo per diventare un po’ più grande.
Gli ordini superiori mi avevano imposto un ruolo di supporto, rifornimento di bottiglie d’acqua e accensione del ventilatore. Non toccava mai a me il joystick nelle due ore giornaliere a disposizione.

Era dannatamente bello. Siamo passati nel giro di cinque anni dall’MSX alla PSOne, con la sua grafica treddì e le colonne sonore che creavano atmosfera. In Metal Gear si facevano un’infinità di cose: si sparava, si correva, ci si nascondeva negli scatoloni, si bussava sui muri per attirare le guardie, si fingeva di essere morti, c’erano il combattimento corpo a corpo e i missili teleguidati. Portate infinite di violenza gratuita, mio fratello banchettava e mi allungava qualcosa da sgranocchiare, fingendo di tutelarmi dalle immagini sullo schermo. Ogni pomeriggio celebravamo il nostro rito pagano di adorazione delle console domestiche e mentre fuori il mondo continuava a far succedere cose incredibili, e se non ricordo male quell’estate diluviò un sacco, noi eravamo felicemente incatenati lì, insieme, a seguire i passi di Snake nella base di Shadow Moses.
Eravamo una coppia perfetta: Andrea al braccio, pronto a sparare scaricando migliaia di proiettili e io in cabina di regia a cercare di far funzionare il cervello. Lui sosteneva di potercela fare senza di me, ma sono stato io a scoprire il codice del CODEC di Meryl dietro alla confezione del CD dopo settimane di sbattimento, ero io che conoscevo il ragazzino che ha battuto Psycho Mantis per noi: un amico dell’estate che diceva di aver fatto la primina e che a breve avrebbe iniziato la secondina. Quando ci ha battuto Mantis lo abbiamo quasi cacciato da campagna, fingendo di dover spegnere e di avere delle cose da fare con papà (lui probabilmente si sarà dissolto di lì a poco con l’arrivo di settembre). La verità era che nessun altro, se non papà, poteva intromettersi tra me, mio fratello e il gioco.
Sempre io mi sono nascosto dietro la sedia di Andrea quando Otacon ha iniziato a urlare nel CODEC che c’erano le guardie con la mimetica ottica. Ancora oggi ho bisogno di Andrea per guardare quella scena. Per sopravvivere alle torture di Revolver Ocelot serviva papà, invece, che era velocissimo a premere cerchio usando il tappo di una penna Bic nera. Quando Gray Fox si è sacrificato per salvare Snake io volevo tirare quello Stinger per distruggere il Metal Gear ma il gioco te lo impediva. Andrea faceva la parte, diceva che in realtà era un errore ma doveva ascoltarmi, aveva l’obbligo di farlo perché io avevo risolto la parte in cui si cammina piano sul cornicione dell’altoforno mentre lui ci cadeva sempre dentro come un fesso. Eravamo davvero una squadra.
Quando papà ha scoperto che in realtà ci stavamo giocando un sacco il pomeriggio si è incazzato di brutto e ci ha nascosto il gioco. Ci siamo arrangiati per qualche giorno con l’album dei Pokèmon e le riviste di Calcio 2000, poi una mattina mentre ero da solo in casa ho infilato a caso le mani in una pila di coperte pesanti e l’ho trovato custodito lì. Che genio mio padre, nascondere una cosa in bella vista ma in un posto improbabile come una bacinella di coperte ad agosto. Non saprei dire perché l’ho fatto, stavo solo gironzolando a casaccio ma da quel momento anche giocare a MG era diventato una missione di spionaggio, una missione fuori dal gioco: bisognava togliere il gioco dalla custodia e rimetterlo dentro prima che papà si svegliasse, mettendo un orecchio in corridoio per capire quando si apriva la porta della camera da letto. Eravamo già dentro Shadow Moses e l’ho capito solo allora, solo in quel momento ho realizzato di essere un infiltrato. La mia missione era sopravvivere a Cantagallo, ma i terroristi anziché sganciare una atomica facevano in modo che il tempo scorresse più lentamente del dovuto.
Per tutto c’è una prima volta: in Metal Gear Solid ho visto le prime immagini delle bombe atomiche sul Giappone. Nel gioco si parla di temi attuali, forse troppo per un titolo che ha più di vent’anni: i disastri nucleari, l’illogica violenza dei conflitti ma anche gli abusi dei governi sulle tribù dei nativi, sugli ultimi sempre più ultimi. La ArmsTech, il DARPA, gli accordi START sugli armamenti nucleari, stavamo inconsciamente assorbendo un quantitativo di informazioni incredibili su come davvero andavano le cose là fuori. Non potevamo capirlo ma MGS stava formando la nostra coscienza e cesellando la sensibilità che sia io che mio fratello abbiamo sempre manifestato nei confronti di temi come la guerra o la violenza o la repressione dei più deboli. Non c’è mai stato il rischio che iniziassimo ad appassionarci alle armi: MGS mi ha fatto odiare le pistole e i fucili, anche quelli giocattolo. Ho rifiutato categoricamente, sempre, l’idea di perseguire una carriera militare e realizzare i sogni di mia madre che mi voleva sposato con la divisa della Marina e di mio padre che mi voleva finanziere: non ci ho mai visto un modo per guadagnare semplicemente dei soldi, pensavo sempre alla crudeltà delle armi, alla responsabilità di impugnare una pistola e poter decidere del destino di un uomo, oppure fare carriera e poter decidere del destino di intere famiglie. C’è Metal Gear in questi ragionamenti, ci penso sempre. Fare il militare non è un lavoro come gli altri, non è come fare il panettiere e anche a questo ci penso sempre.
Prendevo tutto quello che c’era nel gioco e anziché immaginare di essere uno stragista armato fino ai denti cercavo di pensare a cosa posso fare per evitare che certe cose accadano. Avrei tanto voluto pensare lo stesso con GTA Vice City, invece alla prima guida per la patente ho confidato all’istruttore che ogni tanto pensavo di superare una fila di auto passando sul marciapiede. Non mi ha chiamato per due settimane ma sono quasi certo che avrà telefonato a mio padre.
A distanza di diciotto anni dalla prima volta ricordo ancora gran parte del gioco a memoria. Con un foglio davanti e con gli occhi bendati potrei disegnare tutto il percorso che Snake deve compiere da quando toglie la divisa da sub fino a quando si ribalta col fuoristrada insieme a Meryl. Me lo sono scritto dentro, questo gioco. Mi sono comprato i libri, ho giocato tutti i capitoli successivi fino a Phantom Pain e ho usato questa saga per rendermi conto del tempo che passava. Potrei fare il professore di Metal Gear, tenere lezioni di gameplay e raccontare i minimi particolari della storia, ma non ho mai pensato che il tempo speso a giocarci potesse tornarmi utile in qualche modo: l’ho fatto perché sentivo che era giusto andare avanti, perché più mi addentravo nella saga e più mi sentivo ancora lì, ancora nella camera della casa in campagna accanto ad Andrea. Ma non fraintendetemi: tornerei volentieri indietro solo per continuare a giocare alla PlayStation, risparmiandomi se possibile tutto il resto.
Qualche anno dopo l’estate di MG, la mansarda della campagna ha inghiottito acqua come fosse una cisterna e tutte le nostre abitudini estive sono andate a farsi benedire insieme ai vestiti, il Mivar col bottone incastrato, il ventilatore a soffitto e la mia adolescenza. Una benedizione. Tra qualche anno la casa in campagna diventerà casa di mio fratello e mi fa sorridere l’idea che i suoi figli dovranno sopportare la stessa rottura di palle mia e che loro potrebbero doverlo fare per sempre. A volte penso che Andrea ha fatto la scelta giusta decidendo di vivere in Contrada Cantagallo, oggi forse mi servirebbero quella tranquillità e quel silenzio che ho sempre respinto.
Le mie due cugine, che avevano comprato una PlayStation anche loro, sono cresciute e hanno costruito le loro famiglie. Le strade sono andate distruggendosi ulteriormente e nonostante la raccolta differenziata anche i bidoni della spazzatura sono sopravvissuti all’incombere del tempo. Non c’è più molto altro, nonna dice che la Contrada si sta spopolando.
Mi sono rimasti addosso solo i ricordi, quella magica nostalgia che ripulisce il passato da tutti gli eventi spiacevoli e lascia solo il sapore dolciastro della felicità. Ogni tanto però ne sento il bisogno: vado su YouTube, metto su la raccolta di video di Metal Gear Solid e riascolto i dialoghi mentre guido verso casa. “Qui Snake, riesce a sentirmi Colonnello?” “Forte e chiaro, qual è la situazione?”. Vorrei tanto rispondergli io, al Colonnello Campbell, dirgli che la situazione è più o meno la stessa ma senza la scuola, senza quel senso di eterna felicità che mi scorreva dentro. Fargli sapere che alla fine ho scoperto che era la Sony stessa a favorire la proliferazione del materiale masterizzato, per aiutare la diffusione della console a prezzi convenienti e che in quel palazzone dove vive e lavora il signor Playstation sono tutti in debito con me di qualche litro di lacrime silenziose. Confidargli tutto, una sola volta e poi smetterla di sentirmi ancora infiltrato in centinaia di basi sempre diverse. Anche La Piazza di Francavilla oggi è Shadow Moses ma sopravviverci lì è quasi impossibile. Chissà quanti altri francavillesi hanno dovuto sopportare tutto questo come me, chissà qual era il loro rifugio nella loro Cantagallo personale.
Salivo le scale due alla volta, accendevo la ciabatta e schiacciavo il pulsante di accensione. Era davvero il paradiso.
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